La #BuonaScuola, il lavoro e le classi sociali

Partiamo da un concetto fondamentale. Il lavoro non c’è. Non c’è in Italia e comincia ad essercene poco anche all’estero: la disoccupazione in Europa è al 24%, in Italia al 41%, in Grecia e Spagna per una persona che lavora ce n’è un’altra disoccupata.

La ricetta del governo Renzi è molto simile a quella dei governi precedenti e la illustra lo stesso Presidente del Consiglio nell’ormai famosa lezione alla lavagna. Per combattere la disoccupazione bisogna alternare la scuola al lavoro, sul modello (a scelta o mixato) tedesco, austriaco, svizzero e altoatesino.

Quello che però il governo, e la politica in generale, dimentica è che la scuola al mondo del lavoro è attaccata come una cozza allo scoglio.

Matteo Renzi, prima di entrare in politica, ha frequentato il liceo classico, poi la facoltà di giurisprudenza e infine è approdato alla Chil Srl, un’azienda di marketing di proprietà del padre dello stesso premier, Tiziano Renzi. Attenzione, non c’è niente di male a dare un lavoro al proprio figlio, garantendogli un futuro stabile e duraturo. Lo farei anch’io se avessi un’azienda. L’avrebbe fatto mio padre se avesse avuto un’azienda. Ma mio padre faceva l’operaio. Colpa sua, direte voi. Può darsi. Resta il fatto che io, come tantissimi altri, della scuola e dell’università non avevo certo un’idea romantica, piuttosto direi venale.

Matteo Renzi non lo sa, ma per molti giovani e giovanissimi il liceo o la facoltà di giurisprudenza sono e sono state degli approdi formativi proibiti. Perché se non hai la Chil Srl alle spalle studiare latino, filosofia o (di questi tempi) legge, vuol dire, nella migliore delle ipotesi, finire a fare lo stesso lavoro che potresti iniziare a fare a 16 anni. E anche se qualcuno ce la fa a diventare un filosofo, un magistrato o un latinista, non tutti hanno il coraggio di tentare la via meno sicura per pagare l’affitto e le bollette.

Matteo Renzi non lo sa, ma la scuola è una questione di classe. Di classe sociale per la precisione. E non va meglio nella patria della meritocrazia, gli Stati Uniti. Il Washington Post, lo scorso ottobre, ha illustrato come un ragazzo povero ma molto bravo alla fine si trova comunque in una condizione peggiore rispetto a un ragazzo ricco ma mediocre.

Matteo Renzi non lo sa, ma come scrive Tullio De Mauro su Internazionale (riprendendo un articolo del britannico Guardian) lavorare stanca e distoglie dallo studio. Non è così per tutti ovviamente, e certo lavorare part-time o nei fine settimana è un’esperienza formativa unica per i giovani (esperienza di cui io personalmente non mi sono mai pentita), ma per la maggiora parte significa sacrificare un pezzetto del proprio futuro peggiorando il proprio rendimento scolastico e universitario. Matteo Renzi non lo sa (e nemmeno Giuliano Poletti) ma chi spina birre, sistema magazzini e pulisce bagni e locali pubblici non è mai il figlio del padrone della Chil Srl. E se lo è, come dimostra il caso americano citato sopra, fare molto bene a scuola, per lui, non è necessario per rimanere ricco.

Matteo Renzi non lo sa, ma il problema della disoccupazione non sparisce con la riforma della scuola. Il problema della disoccupazione esiste anche perché le classi sociali sono immobili. Se nasci povero al 99% muori povero, se nasci ricco al 99% muori ricco, in tutto il mondo.

La riforma renziana ci darà senza dubbio la tanto desiderata alternanza fra scuola e lavoro. Ma a fare le scuole professionali e tecniche e i tirocini in azienda saranno gli stessi di sempre. I figli dei padroni delle Chil Srl frequenteranno le scuole migliori, i corsi che fanno curriculum, gli stage a New York e Londra. E se tutto ciò non dovesse bastare avranno comunque un posto da dirigente assicurato. O magari perfino in politica.