#Piketty, disuguaglianze (tutt’altro che) moderne

Di recensioni sul libro “Il Capitalismo nel XXI secolo”, dell’economista francese Thomas Piketty, se ne trovano tante sul web. Alcune molto tecniche, altre decisamente meno. Il dibattito politico, invece, come sempre latita; chissà, forse la traduzione italiana uscita il 10 Settembre risveglierà un po’ gli animi.

C’è un aspetto che rende ‘rivoluzionarie’ le teorie di Piketty, condivisibili o meno che siano. “L’intellettuale è tale solo se considerato all’interno della società”, diceva Fichte. Infatti Piketty non fornisce solo una serie di numeri o di equazioni. Piketty, a quelle equazioni e a quei numeri dona una sfera sociale. Per troppo tempo si è stati dietro a teorie, a leggi della matematica, all’analisi della ‘micro’-economia. Per carità, sono importanti anche quelle. Ma si è dimenticata poi la sfera umana, perché saranno anche numeri, ma  hanno ripercussioni sulla vita delle persone, su occhi che si svegliano la mattina e gli unici numeri che vedono sono quelli del contachilometri dell’auto che viaggia verso la fabbrica o l’ufficio.

Ma procediamo con calma. Secondo le tesi di Piketty, il capitalismo genera, e continuerà a generare, disuguaglianze. Questo avviene in maniera più marcata quando il tasso di remunerazione del capitale (quanto rende un patrimonio) supera il tasso di crescita economica (più semplicemente, i redditi, i salari ecc.). Tale sproporzione è accentuata dalla crisi che stiamo vivendo e il rapporto tra i due tassi ha raggiunto i livelli delle società ottocentesche. Vale a dire società dove il patrimonio assume un’importanza influente. Vale a dire società dove la maggioranza della ricchezza è in mano a pochi. E la distanza tra ricchi e poveri  è abissale a discapito del ceto medio. Dice Piketty: “In economie che crescono molto lentamente, la ricchezza accumulata in passato assume un’importanza spropositata, perché occorre solamente un piccolo flusso di nuovi risparmi per accrescere lo stock di ricchezza in modo continuo e sostanziale. Se, in aggiunta, il ritorno proveniente dal capitale rimane significativamente più alto della crescita per un periodo esteso di tempo, allora il pericolo di divergenza nella distribuzione di ricchezza è veramente alto.” In parole povere, i ricchi diventeranno sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

E da qui si evince uno degli aspetti più ‘marxisti’ della teoria di Piketty. Il valore sociale del lavoro. In una società dove la sproporzione tra patrimonio e reddito è elevata vengono meno le fondamenta della democrazia. Non stiamo parlando di patrimoni accumulati da grandi imprenditori con capacità e, soprattutto, lavoro. Stiamo parlando dei loro figli, persone che di lavorare non avranno proprio bisogno. Ciò significa che non tutti hanno le stesse possibilità. Non si parte dallo stesso punto di partenza. Dal punto di vista finanziario, ovviamente, ma anche dal punto di vista umano. Basti pensare, ad esempio, all’accesso all’istruzione, che sta diventando sempre più elitario per la sciagurata politica dell’ultimo ventennio.  Si distrugge cosi la meritocrazia (ancora?!) ma, soprattutto, il valore del lavoro, che è la base delle società democratiche. Se la rendita dei capitali supera la crescita finanziaria, gli investimenti faranno fatica a virare verso i settori che creano occupazione, preferendo la speculazione finanziaria. Il risultato: meno lavoro e meno incentivi a lavorare.

Come porre rimedio? Piketty propone una soluzione politica: una tassa progressiva sul capitale. Non solo, questa tassa deve essere globale. Perché i capitali ormai non conoscono confini (basti pensare ai paradisi fiscali). E perché, proprio per questo, nessun Paese può pensare di agire da solo.

Ma al di là delle soluzioni proposte da Piketty, che possono essere ritenute giuste o meno a seconda del punto di vista (leggi: grandezza del portafoglio) da cui le si guarda, bisogna riconoscere il merito a Piketty di aver riportato al centro del dibattito il concetto di giustizia sociale. Ci fa tornare alla mente le parole del grande Pertini: “La libertà senza la giustizia sociale non è che una conquista fragile, che si risolve per molti nella libertà di morire di fame”. Ci ha ricordato che fra le tante teorie e leggi dietro cui troppe volte si sono nascosti gli economisti e i politici (‘E’ la legge del mercato, è la legge della domanda e dell’offerta!’),  ci sono persone in carne e ossa, attraversate da emozioni e paure.  In troppi lo hanno dimenticato. A troppi conviene dimenticarlo. Vorrebbero farlo dimenticare anche a noi. Non ci riusciranno.