La #crisi al tempo della #democrazia

Pare, oramai, qualcosa di amorfamente simile ad un inutile fardello ereditato dal passato. É certamente una tendenza che prolifera velocemente in tante parti del mondo, ma nel nostro Paese sembra davvero che la democrazia stia subendo un mutamento non solo di carattere formale o formalista, quanto piuttosto un sicuramente più allarmante mutamento sostanziale, nella coscienza democratica della comunità dei cittadini. Eppure la democrazia ha, per sua stessa natura, insito in sè il concetto della crisi, intesa come un approccio critico e ragionevole al presente e al passato al fine di migliorare le condizioni formali e sostanziali della vita collettiva. Questo é, senza ombra di dubbio, l’approccio che la nostra giovane Costituzione ha nei confronti dell’esistenza storicamente determinata della democrazia e della civile cultura democratica.

Perchè, allora, si è arrivati ad un punto in cui la classe politica tradizionale si pone in strenua difesa (necessaria, certo, ma niente affatto sufficiente) delle istituzioni democratiche senza tuttavia mai avvertire la altrettanto forte e irrinunciabile necessità di chiedersi come mai ci sia un sempre più palese deficit di cultura democratica, di un common sense democratico? Credo che il motivo di questa mancata analisi dalla crisi di ciò che potremmo definire “spirito democratico” sia tutto da ricercare, specie a sinistra, nella paura di esporsi. Esporsi sull’agitato e impervio mare della realtà, quello dove o nuoti o anneghi, dove non ci sono benefit, diarie e portaborse.

Non che i politici di sinistra (o in generale progressisti) siano tutti espressione di una casta sciatta e impermeabile ai reali problemi delle persone, anzi, ho avuto piuttosto recentemente l’onore di conoscerne qualcuno totalmente estraneo a questo schema di generalizzazione in parte necessaria ai fini del nostro discorso e in parte sintomatica di un mondo dell’informazione che, guarda caso, fa notizia sempre e solo facendo scatenare i più bassi e deleteri istinti umani. C’è, come dire, all’interno della politica un senso generale di distacco dalla realtà, di mancata esposizione di se stessa con proposte nette, concrete, radicali: radicali non nel senso di estremiste, ma di quella radicalità della concretezza da troppo tempo dimenticata più o meno colpevolmente.

Prendiamo l’esempio della crisi economica: pur non appartenendo di certo a quel filone drammatico-liturgico che postula che la crisi sia colpa “de li politici”, mi chiedo come mai nessuno (né della maggioranza che sostiene il governo né nella quasi ancor più inguardabile opposizione) si sia preso l’impegno di sedersi con tutti attorno a un tavolo e prendere decisioni serie, credibili, immediate in materia di politiche industriali . Perché nessuno lo ha fatto? Ci sarebbe, in merito, una personale spiegazione la cui sintesi parte da un’osservazione della realtà: da un po’ di anni (troppi, a dire il vero) le campagne elettorali non vengono più fatte in base al meccanismo “il mio programma è questo e io su questo punto sono convinto si debba agire nel tale modo”; no, il discorso ricorrente è: “tizio ha fatto questa cosa contro i cittadini e quindi io sono la migliore alternativa”.

Possibile che ogni volta si debba ricominciare da capo? Possibile che non ci si scusi con i cittadini per i tanti errori fatti e si proponga qualcosa di vero, diverso da una ennesima e stanchevole rilettura di ciò che è stato? Dove è finita quella “politica dei lunghi pensieri”, dei progetti, dell’ardire? Certo, la classe politica ha fallito. Ma siamo sicuri noi, cittadini di quella tanto celebrata società civile, di essere così migliori di quella tanto vituperata casta politica? Non abbiamo perso anche noi un po’ di quella sana passione democratica che sta alla base stessa della democrazia? Il rispetto e il buon funzionamento delle istituzioni è certamente importante, ma come è possibile concepire l’idea di una democrazia degli apparati priva di un substrato culturale radicato e forte?

C’è la crisi, è vero: manca il lavoro, mancano i soldi, manca la speranza, il futuro, la possibilità. Potrebbe essere, questa crisi, una buona occasione per guardare in faccia la realtà e chiederci che cosa abbiamo fatto noi per essere diversi da quelli che critichiamo e, magari, per chiedersi se basta restituire qualche soldo per essere definiti “politici onesti”. Lo disse con una lucidità impressionante il Presidente Roosevelt nell’aprile del 1938, quando la democrazia, più che la regola, era un privilegio di pochi:

«La democrazia è scomparsa in diverse altre grandi nazioni – scomparsa non perché il popolo di quelle nazioni non amasse la democrazia, ma perché si era stancato di disoccupazione e di insicurezza, di vedere i propri figli affamati, mentre era seduto impotente di fronte alla confusione del governo, la debolezza del governo, debolezza per mancanza di leadership nel governo. Infine, in preda alla disperazione, i cittadini hanno scelto di sacrificare la libertà nella speranza di ottenere qualcosa da mangiare».

Sarebbe bene ricordarsene sempre, senza cedere alla soluzione più semplice, meno faticosa, la decisione che in realtà è una delega etica, morale e culturale a chi grida più forte, a chi sbraita e dall’alto del suo balcone si autoproclama migliore di tutti gli altri.