Morire nelle mani dello Stato

Da fuori non è facile comprendere o almeno avere compassione per chi vive una parte della propria vita dietro le sbarre. Hanno rubato, ammazzato, violentato, il perdono è difficile per le vittime, inimmaginabile per chi si mette nei loro panni.

Io e Federico avevamo la stessa età, non ci conoscevamo, abitavamo a qualche chilometro di distanza, Federico è stato pestato, ammazzato da quattro poliziotti, si chiamano Forlani, Segatto, Pontani e Pollastri. Federico è morto una, due, tre volte. Tutte e tre per mano dello Stato.

Giuseppe era con un amico, un po’ allegri tutti e due, si son messi in testa di fare una zingarata. Giuseppe è morto, nella caserma dei carabinieri di Varese, prima di morire pare sia stato anche sodomizzato. Dallo Stato.

Aldo non era un mafioso, non era un assassino, non era uno stupratore. Aveva una moglie, un figlio, viveva in campagna, coltivava marijuana e la fumava con gli amici. Il cantante della camorra, che spacciava marijuana mescolata ad altre sostanze stupefacenti importate dall’Olanda, è stato arrestato qualche giorno fa. Aldo è morto dopo due giorni in cella di isolamento, Tony Marciano, invece, canta Nun ciamm arrennere, contro i pentiti, che parlano troppo rovinando le fiorenti attività della camorra.

Non mi piacciono i numeri: le persone hanno una vita, degli affetti, un posto nella società, anche se quel posto non esiste più. Ma le storie, come quella di Stefano, si dimenticano in fretta, la gente fuori finisce per annoiarsi. Vorrei parlare di tutti, uno per uno, scavare nelle loro vite, trovare ciò che non va, ciò che non è chiaro, ma anche ai giornalisti più smaliziati sfugge qualche caso e le lungaggini processuali fanno inevitabilmente scemare l’attenzione. Allora forse le cifre qui un significato lo possono acquistare.

L’anno scorso le morti dietro le sbarre sono state 186, 66 suicidi. Tereke Lema Alefech, etiope di 55 anni, si è impiccata un mese fa, fuori aveva ammazzato un’altra donna. Ha fatto bene, meglio così, si penserà. E io di certo non ho il dono del garantismo, ma Tereke si era beccata 18 anni di carcere, chi pagherà invece per la sua morte?

Poco meno della metà degli attuali detenuti nelle carceri italiane è in attesa di giudizio definitivo, 27 dei 66 suicidi del 2011 appartenevano a questa categoria. L’anno scorso lo Stato ha sborsato 46 milioni di euro di risarcimenti totali per ingiusta detenzione ed errori giudiziari: lo ha detto il ministro Severino alla Camera, anche questa dovrebbe essere spending review.

Perché in carcere ci si suicida? Perché non si hanno prospettive, quand’anche si venisse assolti la macchia rimane, il reinserimento nella società non è così automatico. Il caso più eclatante fu quello di Walter Chiari, assolto dall’accusa di spaccio, anche a causa del polverone mediatico intorno alla sua vicenda, passò in un attimo da Orson Welles a Tele Alto Milanese. Mancano le strutture, il personale, tutto quello che può garantire a un detenuto un futuro reinserimento al di fuori del carcere: al Due Palazzi di Padova i detenuti si occupano di una splendida rivista, Ristretti Orizzonti, hanno imparato a fare i pasticceri,  offrono tutela legale alle persone senza fissa dimora (spesso ex detenuti), incontrano gli studenti, fanno gli operatori informatici. Ma il Due Palazzi, come il San Vittore della gestione Pagano, è un’eccezione in una situazione generale disastrosa: le carceri italiane sono fuorilegge, lo denuncia l’Associazione Antigone. Dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sono arrivate le condanne per l’Italia nel 2004 come nel 2009: condanna non vuol dire una letterina da Strasburgo, condanna significa che lo Stato deve pagare. Spending review.

Noi siamo fuori. La polizia e i carabinieri forse li abbiamo visti solo per denunciare lo smarrimento di un documento. Se sei bravo, dicono, in galera non ci finisci, di fare quella vita l’hanno scelto loro, rubano, ammazzano, violentano, si drogano, spacciano, cosa pretendono? Il Grand Hotel? Allora perché interessarci di loro? Perché in carcere, nel 2012, ci posso finire io, tu, un amico, un parente, anche tenendo una condotta integerrima, in galera per un caso della vita ci può morire, domani, uno qualunque fra noi. Stefano era sospettato di spaccio, vivo in caserma, morto in carcere. Marcello è morto nel carcere di Livorno otto anni fa, caso archiviato, ricorso respinto dalla Corte Europea, condannato per tentato furto, ufficialmente colto da infarto: a 40 anni, con otto costole rotte, mandibola, sterno e polso fratturati.

In Italia ogni cinque giorni un detenuto si suicida. In media i decessi sono 150 all’anno: per overdose, per omicidio, per cause da accertare. Dal 2000 a oggi 68 guardie carcerarie si sono suicidate. Uccisi, picchiati e umiliati dallo Stato.