Oggi il mantra dei liberali italiani è chiaro: l’alternativa al “bipopulismo” di destra e sinistra. Una narrazione che vuole la destra al governo come la copia speculare della sinistra “populista e massimalista”, temuta dai “razionali, moderati e competenti” che affollano il centro.
Ma la domanda sorge inevitabile: com’è possibile che in un Paese dove liberali e cattolici centristi hanno governato per mezzo secolo, oggi il centro politico sia ridotto a una forza marginale? E perché, in un sistema elettorale ancora prevalentemente proporzionale, i moderati non riescono ad attrarre quell’elettorato mediano che dovrebbe rappresentare il loro naturale bacino?
Non è un fenomeno soltanto italiano. L’Europa intera scivola verso una deriva populista: l’AfD primo nei sondaggi in Germania, il Rassemblement National dominante in Francia, Vox stabile in Spagna. A fare eccezione è proprio la Spagna, dove la sinistra resiste al governo con un’agenda progressista. In Italia, invece, la destra continua a rafforzarsi indisturbata, nonostante la zavorra salviniana che imbarazza governo e la nostra Repubblica.
Dunque sì, il populismo va combattuto. Ma non nel modo scelto dai liberali nostrani, che finiscono col cadere nella trappola più banale: contrastare il populismo con gli stessi strumenti populisti.
Per loro, la politica è una lotta manichea: il “bene” pragmatico e centrista contro il “male”, rappresentato non solo dal governo Meloni, che ha partorito (fra gli altri) il decreto Sicurezza, la riforma più illiberale degli ultimi anni, ma anche dal centrosinistra, accusato di essersi spostato troppo a sinistra. Ironia della sorte: i principali bersagli non sono solo AVS o il Movimento 5 Stelle, ma lo stesso Partito Democratico, reo di aver abbandonato l’ortodossia riformista.
E qui entra in scena Carlo Calenda. Tra un insulto sui social e un proclama sul pragmatismo tradito, il leader di Azione incarna alla perfezione i tratti del populismo descritti da Chantal Delsol: partiti leaderistici, linguaggio diretto (quando non apertamente triviale), e soprattutto la costruzione di un nemico comune da additare. Se non è populismo questo, cos’altro lo è?
Il problema non si limita a Calenda. Azione ha ridotto la propria identità politica alla questione delle coalizioni, con l’unica missione di etichettare il centrosinistra come “populista” e dunque da combattere. Italia Viva segue una linea più sottile: partecipa alle coalizioni, ma con l’obiettivo dichiarato di “ripulirle” da chi non è gradito, cercando di trascinare il PD verso una “nuova stagione riformista“. Una stagione rimpianta solo dai renziani più accaniti, ancora aggrappati al mito blairiano di inizio secolo.
La vera questione non è con chi ci si allea, ma che idea di società si propone. Se davvero nel 2027 si vorrà governare – non solo “battere la destra” – bisognerà avere un progetto chiaro, e non tornare ai riformismi stanchi, alle ricette di austerità, liberismo e macelleria sociale che hanno già consegnato il Paese alla destra.
Ai liberali rimane un messaggio semplice e diretto: “Il vostro compito era sconfiggere i populisti, non imitarli.”