Schiavi del debito

– Buongiorno. Mi sono appena trasferita, vorrei aprire un conto corrente con la vostra banca, mi serve per farmi versare lo stipendio, pagare l’affitto e le bollette.
– Ha una prova del suo indirizzo?
– Sì, ho il contratto…
– Ah, ma questo non va bene, l’agenzia doveva fare un timbro… qui.
– Ma c’è il nome dell’agenzia e la firma…
– La politica della banca non mi permette di accettarlo come documento.
– Ma vede io ho bisogno del conto, senza come faccio a pagare… e se non pago niente documenti…

Quando ci si trasferisce, specialmente in un altro Paese, per un certo periodo di tempo si entra in un loop burocratico da far perdere il sonno. Se non si ha ancora un indirizzo niente conto corrente e se non si ha un conto corrente prendere casa in affitto diventa un’odissea, il resto viene a cascata: le utenze premono per i pagamenti, mettere il telefono e internet è impossibile, l’assistenza medica e le assicurazioni rimangono sospese, per i biglietti aerei si torna a rivolgersi alle agenzie di viaggi (e si spende una fortuna). Insomma Kafka non era un pazzo visionario.

Il fatto è che in tutto avere un lavoro e una storia finanziaria normale, è assolutamente ininfluente. Uscendo sconfitta dall’ennesimo colloquio con l’impettito bancario, mi sono figurata a capo di un traffico internazionale di eroina, palazzinara per hobby e con un paio di società fantasma alle Cayman, seduta su una poltrona di pelle di una banca svizzera con la mia bella valigetta piena di contante, pronta ad aprire un conto senza colpo ferire.

La pignoleria delle banche nel concedere i propri servizi, sembra paradossale a fronte della crisi di questi anni. Nel 2007 il motto era “too big to fail”, si pensava infatti che gli istituti di credito fossero troppo grandi e troppo importanti per fallire come una qualsiasi altra società e che, nel caso, si sarebbero trascinate dietro tutta l’economia – come se ora si stesse tutti benissimo – il dubbio che adesso tutti si pongono è che invece le banche siano “too big to jail”, troppo grosse anche per aprire un’indagine.

HSBC e Standard Chartered hanno facilitato trasferimenti finanziari illeciti per conto di Iran, Libia, Sudan e Myanmar e hanno avuto anche relazioni coi cartelli della droga messicani e colombiani (The Economist). Barclays ha pagato oltre 7 miliardi di sterline per reati vari, inclusa la manipolazione dei tassi di cambio tra valute estere per incrementare i profitti (London Evening Standard). Deutsche Bank è accusata di evasione fiscale, scambio di certificati di emissione, mancata segnalazione di riciclaggio di denaro e ostruzione della giustizia (Spiegel Online). Pensate a una banca qualsiasi nel mondo e state pur certi che ci sono grosse probabilità che abbia commesso, prima e durante la crisi, almeno tre o quattro reati o quasi-reati.

In questo quadro al solerte impiegato della filiale mi verrebbe da dire che è soltanto un altro mattone nel muro.

Prendiamo ora un giovane, disoccupato e senza casa, come si collocherà nel meraviglioso mondo regolato dalla finanza? In California chi riceve il sostegno per la disoccupazione, dal 2011 è obbligato a farlo tramite una carta di debito VISA della Bank of America. Ogni volta che il “beneficiario” (diciamo così) usa la carta, c’è un costo, talvolta anche a carico del commerciante (ufficialmente per coprire eventuali frodi), che finisce direttamente nelle casse della banca: si parla di oltre 400 mila dollari l’anno anche per un solo utilizzo da parte di ciascun disoccupato. Ma c’è di più: la missione umanitaria che le banche oggi si prefiggono è l’inclusione finanziaria. I poveri hanno la primitiva abitudine di usare, quando possono, il denaro contante, che però ha il difetto di non non creare profitto per le banche e le attività correlate. Così alcune compagnie offrono loro carte di credito, anticipi e prestiti da ripagare con lo stipendio successivo. Con interessi altissimi, ovviamente. Si chiama industria della povertà ed è praticamente usura legalizzata, che attira nella spirale del debito milioni di persone.

Sembra paradossale ma non lo è. Al sistema finanziario il bacino di utenti che può pagare ciò che compra e che magari riesce a metter via qualcosa ogni mese, interessa poco, quello che crea business è la capacità delle persone di indebitarsi, come dei moderni servi della gleba. La macchina finanziaria si muove con soldi virtuali in mercati virtuali, i manager sorseggiano champagne tra una bolla speculativa e un’altra e la stragrande maggioranza delle persone vive e lavora per ripagare il debito contratto più o meno palesemente con le banche.

Non tantissimo tempo fa (ero una bambina) ricordo che i miei genitori mettevano alcuni risparmi in quella che in tutto il Veneto si chiamava Cassa Peota, una specie di libero banco di mutua assistenza, tradizione sopravvissuta sia alla crisi che ai paletti legislativi della Banca d’Italia. Ho sentito e letto predizioni apocalittiche e teorie di ogni tipo, dal signoraggio al cartalismo/statalismo riverniciato di fresco. C’era anche chi proponeva di ritirare tutti insieme i soldi dai conti correnti, un’dea che mi faceva pensare a quando in classe si decideva di consegnare il compito tutti in bianco per protesta e sistematicamente c’era sempre quello che il compito lo faceva fregandoci tutti. Data la filosofia di vita che ho scelto, credo che nella pratica la migliore risposta alla schiavitù finanziaria sia riprendere gradualmente il controllo della propria vita e delle relazioni mutualistiche (come era appunto il principio e la funzione della Cassa Peota), usare il tempo libero per fare cose per altre persone e, nel caso, ricevee altro in cambio, diminuire i consumi superflui, essere attenti a ciò che accade nel proprio territorio e associarsi laddove ci sia un interesse comune . Non sono cose, mi rendo conto, che faranno disperare i capoccia di Lehman Brothers, ma sono un bell’esercizio di libertà, una cosa a cui siamo troppo poco abituati.