#SIAE: i danni e le beffe

Se in questi giorni la SIAE non si fosse scritta da sola un decreto su smartphone, hard disk e affini da 200 milioni di euro buoni, tutti a scapito sia delle tasche di chi comprerà l’iPhone 5 per fare il ganzo sia di chi comprerà una nuova penna USB per salvare la decima copia della propria tesi di laurea, non si sarebbe tornati a parlare di quello che è, diciamocelo, un carrozzone che andrebbe rivisto da cima a fondo.

La SIAE è formalmente un ente pubblico economico, ovvero una persona giuridica con un proprio patrimonio e dei dipendenti sottoposti a rapporti di impiego di diritto privato. In quanto società degli autori e degli editori, ciascuno di essi può associarsi versando una quota e/o depositarvi la propria opera. Questo non crea il diritto d’autore, ma dà alla società il mandato di tutelarlo. E qui sta la prima possibilità di manovra: non iscriversi alla SIAE. Facile no? Non proprio. La SIAE è l’unico ente autorizzato in Italia a fare da intermediario tra l’autore e chi ne sfrutta l’opera (art. 180), anche se si chiarisce che

La suddetta esclusività di poteri non pregiudica la facoltà spettante all’autore, ai suoi successori o agli aventi causa, di esercitare direttamente i diritti loro riconosciuti da questa legge.

E ci mancherebbe. Attenzione a non fare confusione: se io compongo testo e musica di “quel mazzolin di fiori” il diritto d’autore nasce con la mia opera, andrò alla SIAE solo perché i suoi dipendenti facciano quello che io non ho voglia di fare, ovvero andare alla festa degli ultranovantenni di Predazzo a farmi pagare per aver cantato la mia canzone. Questo potrei farlo anche da sola, ma vuoi mettere la comodità a soli 100 euro l’anno di avere uno che va a Predazzo a farmi intascare 50 centesimi?

Che cos’è che non posso fare? Non posso associarmi ai miei amici Tizio, Caio e Sempronio e lasciare che Caio, quello che fra noi ha studiato legge, si occupi della riscossione dei diritti di utilizzazione economica di “quel mazzolin di fiori” per conto mio. Certo, sarebbe difficile e forse oneroso tenere sotto controllo l’operato di tutte queste micro-associazioni che verrebbero a formarsi e un monopolio legale, qual è lo status ufficiale della SIAE, sembra essere una buona soluzione. D’altra parte le storture e, talvolta, le prepotenze di questo sistema anacronistico sono dietro l’angolo.

Chi ha lavorato in locali dove si suona musica (dal vivo o no) sa bene che a fine serata il musicista o il dj compila il cosiddetto borderò, ovvero un elenco dei brani eseguiti durante la serata affinché la SIAE paghi immantenente (sì, ciao) i diritti ai rispettivi autori. Ah, quando voi andate in discoteca anche il prezzo del vostro drink finisce in parte nelle casse della SIAE. Fino al 1996 era obbligatorio compilare il borderò anche per chi eseguiva brani non depositati alla SIAE, ma Andrea Caovini (che qui racconta la sua storia d’amore col vecchio carrozzone) è stato più volte “invitato” a fare quello che da ben 17 anni non è obbligato a fare: questo perché nel caso in cui la SIAE non si fidi di Andrea, dovrà mandare qualcuno nel locale a controllare che non suoni “quel mazzolin di fiori” infischiandosene di pagare le dovute royalties. Troppa fatica, meglio sfruttare il rapporto di forza e usare come fosse fresca di stamattina una legge abrogata ai tempi in cui Braveheart vinceva 5 Oscar. Come fa notare Andrea però, se è vero che i furbetti ci sono e vanno tenuti d’occhio, perché uno dovrebbe pagare la sorveglianza della banca sotto casa sua se non ha un conto corrente? Infatti alla consegna del foglio il titolare del locale paga una quota, indipendentemente da quello che c’è scritto sopra. Per chiarire, la SIAE fa già i controlli e pare se ne infischi dei borderò, così che i soldi finiscono solo agli artisti più quotati.

L’analogia vale anche per ciò che avverrà col rincaro dell’equo compenso: con una tassa sulle memorie interne copriremo le perdite dovute ai download illegali. Strano che chi applaude dagli scranni del Parlamento all’ennesima fumosa operazione pro-legalità non abbia pensato che, con questa motivazione, uno potrebbe anche sentirsi in diritto di mettere su penna USB un download illegale, visto che comprando il suddetto supporto ha già dato dei soldi alla SIAE (non è che ve lo sto suggerendo io, lo dicono molti utenti da giorni e lo dicono loro che lo farete e che quindi agiscono di conseguenza). Insomma ci sarà da ridere (o da piangere) quando, fra un anno o due, SIAE e politici esclameranno “parbleu! non abbiamo sconfitto il download illegale!” e via con altre multe e tasse fantasiose.

Grande è la confusione sotto il cielo! In base all’articolo 46 del Regolamento SIAE un associato non può rilasciare per conto proprio il permesso di utilizzazione (anche a scopo gratuito) della propria opera. Eppure, secondo la legge citata prima, il ruolo da intermediario della SIAE non impedisce che l’autore faccia valere per conto proprio i diritti che gli spettano. Se qualcuno dell’associazione ci legge sarebbe gradita un po’ di chiarezza su questo punto.

Secondo Guido Scorza il bilancio positivo della SIAE è dovuto alla lentezza con cui paga i diritti agli autori: le tempistiche smisurate “costringono” l’ente a depositare i milioni incassati in conti correnti e a investirli in prodotti finanziari. Tanto che nel 2012 le perdite sono state compensate dalla gestione straordinaria e finanziaria. Insomma, se la SIAE è lenta a darvi il vostro compenso, ringraziatela, lo fa per restare in vita e non darvi subito quello che vi spetta! Geniale vero?

Inoltre, come riportato da Altroconsumo, nel 2009 l’ex presidente della SIAE Giorgio Assumma dichiarò che oltre la metà degli associati percepiva meno di quanto versava. Certo, non tutti hanno la fortuna di scrivere una canzone che passa alla radio o un monologo cui assistono in teatro migliaia di persone, ma viene comunque da chiedersi se abbia senso per un autore sconosciuto pagare una quota che per 3/4 finisce nel calderone dei costi burocratici e che per 1/4 probabilmente andrà a un artista molto più famoso di lui.

Non credo che liberalizzare il ruolo di intermediario sia una soluzione, o almeno non credo lo sia a lungo termine, visto e considerato che le tanto sbandierate liberalizzazioni italiane sono state il più delle volte cessioni di monopoli a soggetti privati. Credo invece che mettersi al passo con tutte le nuove sfaccettature del diritto d’autore (Creative Commons, autoarchiviazione, ecc…) sia un obbligo per tutti e sia altrettanto necessario che lo Stato (o la UE o qualunque altra collettività riconosciuta) si faccia garante della protezione della creatività e non dei diritti acquisiti di una professione. Ma questo vorrebbe dire anche rendersi conto che i meccanismi di produzione intellettuale sono oggi molto più complessi e molto più facilmente sfruttabili da un colosso come Facebook che da un ragazzino che scarica illegalmente una canzone.

A tal proposito: questo mio articolo, che è sotto licenza Creative Commons, forse verrà condiviso sui social network, i quali guadagnano sui contenuti prodotti dagli utenti, tra cui foto, articoli condivisi, applicazioni, pagine. E allora se tutti noi lavoriamo quotidianamente senza compenso per mister Zuckerberg o mister Dorsey, ha ancora senso depositare lo spartito di “quel mazzolin di fiori” all’ufficio SIAE di Belluno?