Les Misérables. Non è Hugo ma…

Guardare un film tratto o ispirato a un romanzo sperando di “vedere” il romanzo significa rinnegare la preziosa differenza che esiste tra il linguaggio cinematografico e  quello letterario, un po’ come rimproverare a Verdi che La Traviata non è La Signora delle Camelie. Les Misérables, vincitore di 3 premi Oscar (di cui uno a mio avviso meritatissimo ad Anne Hathaway), ha il pregio di voler essere umilmente un doppio omaggio: al musical omonimo, che è stato uno dei più grandi successi teatrali di sempre, e ovviamente al maestro Victor Hugo.

Condensare con la stessa carica umana, ironica, poetica e la stessa spinta socialista una storia immensa come quella de I Miserabili in un paio d’ore di proiezione non dovrebbe nemmeno essere preso in considerazione, ciò non toglie che se ne possa trarre un buon film. In questo caso non un capolavoro (probabilmente lo è per il genere musical), ma certo una bella e sana pubblicità a un’opera fondamentale della letteratura mondiale. Operazione questa che si dovrebbe fare periodicamente per qualche altra decina di titoli.

Che Russel Crowe non sia un cantante da musical è purtroppo evidente, ma resta la sensazione che tolto il sonoro impersoni un migliore Javert di Geoffrey Rush nel 1998, peccato. Hugh Jackman nel ruolo di Jean Valjean parte bene e si prende tutta la scena, da interprete di musical consumato qual è, ma verso la fine sembra un po’ perdersi. Dal punto di vista della storia questa sensazione di stanchezza finisce con l’essere invece apprezzabile: se lui è il motore iniziale è anche vero che lo sviluppo è un movimento corale di miserabili (appunto) che scendono e risalgono la scala sociale in tutti i modi. Jackman, forse anche involontariamente, perde quella carica epica che ci fa assaporare già nei primi minuti, ma si mantiene congeniale a una trama che, altrimenti, si sarebbe arenata in un noioso feuilleton hollywoodiano.

Madame e Monsieur Thénardier (Helena Bonham Carter e Sacha Baron Cohen) sono limitati al diversivo farsesco da operetta (che pure risulta di grande pregio) e viene solo accennata la loro funzione di nemesi necessaria (perché differente da Javert) al personaggio di Valjean, ovvero quei miserabili senza speranza perché amano morbosamente la propria povertà e da questa traggono la loro vitalità. Il ritmo cinematografico però impone delle scelte e questa a mio avviso non è la peggiore possibile.

Infine un elogio allo stile del regista Tom Hooper, già Oscar alla regia per Il Discorso del Re. La scenografia di Stewart e i costumi di Delgado sono straordinari e pongono di fronte a una scelta: o ci si sottomette a loro e si fa un pacchetto bellissimo e vuoto, oppure ogni tanto si mette la telecamera davanti alla faccia dell’attore… che tra l’altro non sta cantando in playback (come avviene abitualmente nei musical che diventano film). Questo ha fatto Hooper e questo è forse anche un pezzettino dell’Oscar alla Hathaway.

Sono lunghe 2 ore e mezza per un musical in lingua inglese sottotitolato in italiano (pessima la scelta di doppiare le pochissime parti recitate) e non mi sorprende che possano scoraggiare molti spettatori. Ma la storia, corredata da un buon impianto scenico e musicale (che al cinema è ovviamente potenziato), scorre veloce e soprattutto fa bene a cuore e al cervello, e questo, a 150 anni di distanza, è merito del più grande scrittore di Francia, purtroppo.