Per un pugno di Sheqel

Sapete cosa dovrebbe dire? Grazie di essere stati qui, fate buon viaggio. Cose così, sennò chi ci torna più?

Dopo il primo controllo appena fuori l’aeroporto di Tel Aviv, ci saluta così il tassista, infastidito mentre parla del poliziotto che ci ha interrogato, con un inglese che mescola l’accento americano a quello israeliano. La privacy, a noi tanto cara, lì non esiste. Fermano senza dare spiegazioni, controllano le borse, osservano anche da lontano, metal detector ovunque. Ma soprattutto domande, come una mitragliata, da dove vieni, cosa fai, dove vai. Chi è stato qui, chi ci lavora (europei, americani) dice che ci si abitua dopo un po’, ma il mio pensiero era costantemente: vale la pena vivere così?

Gerusalemme è un luogo tremendamente bello: ma è una bomba, al centro di un incendio. Va vista con chi conosce il posto, possibilmente in gruppo e con una guardia al seguito. Difficile contare quante confessioni religiose convivono negli stessi posti, c’è una rigida divisione in quartieri, è vero, ma le persone a volte si mescolano, in modo incomprensibile: condividono una chiesa, quella del Santo Sepolcro, cattolici, siriani, copti, greco-ortodossi, armeni, etiopi. Celebrano i riti anche in contemporanea, in stanze adiacenti: latino e incenso da una parte, centinaia di candele dall’altra. Una donna, che prima era su una sedia a rotelle, viene fatta sedere a terra, a un metro dalla pietra su cui lavarono il corpo di Cristo. Dicono.

Noi non abbiamo re o regine, quello che abbiamo è un solo Dio.

Gli ebrei ortodossi pregano davanti al Kotel, quello che noi chiamiamo muro del pianto (o western wall), mi hanno detto tassativamente tre volte al giorno. C’è una coda spaventosa, alle donne è riservata un’area piccolissima, sono tutte ammassate, ci saranno 40 gradi, umidità al 90%, hanno un maglioncino o una camicia, la gonna alle caviglie: modestia (Tzniut), la chiama la guida. Vado in bagno, una di loro esce, controlla il trucco, si sistema i capelli, spegne l’iPhone. Modestia.

I bambini frequentano scuole diverse a seconda della religione che gli mettono in testa, corrono e giocano nelle strettissime vie del mercato, lo Shuk, una strada infinita di negozietti e bancarelle di ogni tipo. Da sopra, quasi in parallelo, si vedono i resti del vecchio porticato romano. Fa strano pensare a come doveva essere governare il posto forse più caldo dell’impero, doveva sembrare una specie di punizione ai vari Pilato e Marcello.

Ma Gerusalemme non sembra e forse non è Israele, è come se Baghdad fosse la capitale della Silicon Valley.

Uno degli israeliani che è con noi, un ragazzo, mi dice che si sta convertendo all’ebraismo messianico: sono ebrei a tutti gli effetti, ma credono che Gesù sia il messia, come gli apostoli. Lavora in uno degli istituti scientifici più famosi al mondo: qui c’è tutto, puoi trovare l’inimmaginabile, commenta un mio amico. Ci sono russi, africani, europei: Israele da punto di ritorno è diventato immediatamente catalizzatore di qualsiasi conflitto. Politica, denaro, ma la causa prima è la religione, è così da migliaia di anni, e qui si vede, si sente, si respira.

Aspetto il mio volo. Si avvicina una di quelle signore che raccolgono i questionari da cui poi ricavano notizie utili per migliorare i servizi del luogo. Mi fa le stesse domande che fanno in tutti gli aeroporti. Mi chiede se ho intenzione di tornare, sorrido sapendo di mentire: probabilmente sì, rispondo. Mi chiede a che confessione religiosa appartengo. Me ne elenca qualcuna, le dico semplicemente che sono atea. Ringrazia, mi sorride e se ne va. Lo sa anche lei, quello non è posto per me.