Dall’America all’Italia. Passando per X-Factor

Pochi giorni fa sono capitato,per puro caso, alla presentazione del nuovo libro di Alessandro Cattelan –personaggio televisivo, radiofonico e scrittore – alla libreria Mondadori di Bologna. Presentatore/mediatore dell’evento una firma bolognese del Fatto Quotidiano, ininfluente ai fini di questa discussione se non per il fatto, più unico che raro, di trovare un giornalista del Fatto in una libreria Mondadori: è come il classico diabetico in una pasticceria (insomma, un “fatto non quotidiano”).

Dopo una breve descrizione del romanzo del suddetto scrittore si è passato alle domande del pubblico: tra i vari temi trattati, si è parlato anche di musica. Sì, perché Alessandro Cattelan è stato il presentatore della stagione appena trascorsa di X-Factor, quel talent show scopritore di artisti, futuri partecipanti di Sanremo, futuri insuccessi estivi, e cibo per quel paio di case discografiche (le famose “major”) che si spartiscono la piazza imponendo i propri schemi di produzione o dettando una sorta di moda generalista capace di spargersi a macchia d’olio nello già squallido ambiente in cui si ritrova – ferma, bloccata – la musica, soprattutto quella leggera, italiana.
Da qui – e le forme più sperimentali ed embrionali si trovano proprio in certi reality – i virtuosismi vocali ripresi e scopiazzati dalle hit americane, rapper imborghesiti che da un momento all’altro si ritrovano nella stesse identiche condizioni familiari di Eminem, o la moda tutta femminile di battere con le dita sul microfono mentre si canta. Tutto una gran finzione.

Cattelan stesso, quel giorno lì, ha fatto notare la differenza che c’è tra un artista italiano famoso e uno americano, lo spessore qualitativo che li divide e, quindi, il risultato che ne scaturisce e che sottolinea quanto noi italiani avremmo da imparare da quei geniacci d’oltre oceano.
Tutto ciò ha dato spunto alla mia riflessione. Credo, infatti, che la soluzione sia abbastanza intuibile: finché ci limiteremo ad etichettarci “made in U.S.A.” importando le idee che lì riescono e riproducendole in maniera quasi discreta rispetto all’originale è ovvio che resteremo sempre una spanna sotto gli altri.
Quello che ne esce fuori è un vestito tarocco.

E poi, come è possibile cercare di valorizzare la musica italiana se esistono talent show gestiti e manovrati dalle stesse major che fanno sì che la musica sia principalmente una macchina da soldi? Si crea un circolo vizioso.

Ti fanno credere che per diventare “qualcuno” devi provare il reality, “perché è un ottimo trampolino di lancio”… nel vuoto. Nel vuoto di una certa musica italiana, nella pochezza dei contenuti, nell’inutilità di alcuni brani che, pur parlando d’amore, ti suscitano tutto tranne che quello.

Una volta c’erano i cantautori , che riuscivano ad essere presenti anche sulla scena più popolare e che venivano valorizzati al meglio dalle case discografiche d’appartenenza, in modo da riuscire a far vendere il contenuto e il messaggio che essi portavano. Era un dare e avere. Una sorta di simbiosi.
L’Italia, inoltre, ha una tradizione cantautorale tra le migliori al mondo: la storia della musica italiana è piena di cantautori intelligenti, interessanti, ironici, pungenti, ermetici o diretti. Si è dato vita a un vero e proprio genere musicale, variegato ed eterogeneo ma unito da un filo rosso fatto di emozioni di tutti i tipi. Questo oggi non è più riconosciuto, anzi, è oscurato da un grande nulla.

Oggi i cantautori sulla scena popolare non esistono quasi più: gli unici riconosciuti dalle “grandi” etichette sono quelli che col tempo hanno aumentato la propria fama e sono stati comprati a buon prezzo. Sono finiti i tempi in cui il discografico beccava per caso l’artista nel locale in cui si esibiva e decideva di investire denaro su di lui. Una volta bastava essere bravi e avere anche un po’ di “fattore C.”. Oggi c’è il provino di X-factor o, male che vada, quello di Amici.

Tanto poi succederà che l’autore di turno scriverà il pezzo fatto su misura per te, che ti farà vincere Sanremo (grazie ai voti delle ragazzine che si passano la parola su Facebook), che farai un videoclip girato interamente a Los Angeles, e tutti noi potremmo dire di essere, sempre di più, come gli americani.
Ma una spanna sotto.