Siria: dalla primavera alla morte

Cronaca preventiva di elezioni non svolte

Si continua a morire in Siria. A distanza di un anno dall’inizio delle proteste contro il regime del presidente-dittatore Bashar Al Assad, i civili ammazzati dalla repressione governativa sarebbero circa ottomila. Stragi nelle piazze di Damasco, uccisioni di massa a Homs, villaggi rasi al suolo. Le organizzazioni non governative denunciano la catastrofe umanitaria. Le Nazioni Unite sono il solito immobile coacervo di pesanti interessi. La Russia e la Cina si esprimono quotidianamente contro qualsiasi ipotesi di intervento militare nel Paese dove fanno affari; negli Stati Uniti, alla vigilia delle presidenziali, l’impegno dell’amministrazione in una nuova guerra di “esportazione della democrazia” non sarebbe d’aiuto al Presidente ricandidato e se proprio si dovesse decidere di combattere, meglio farlo in Iran; Israele vorrebbe intervenire, ma ha bisogno di consenso; l’Europa è vicina, ma è al palo: la crisi economico-finanziaria distrae le menti dei leader del vecchio continente.

Eppure la primavera c’è stata. E chi scendeva in piazza a Damasco, per la democrazia e i diritti, non diceva cose diverse da chi manifestava al Cairo, o a Tunisi. E poi, dove i movimenti democratici non hanno spodestato Rais e affini, è intervenuto l’Occidente. «A sostegno della primavera araba, perchè i popoli meritano democrazia in tutto il mondo», ghignavano i petrolieri e gli investitori europei e statunitensi, benedicendo la guerra in Libia. Ma la Siria si trova sotto l’ombrello delle potenze sbagliate: gli affari nel Paese sono cosa dei russi e dei cinesi e Putin è uno che non cede riguardo al proprio posizionamento nello scacchiere internazionale. Assad non si tocca, auguri ai siriani.

La novità di oggi è che Bashar Al Assad ha indetto le elezioni. Le prime che dovrebbero svolgersi secondo il dettato della Costituzione appena approvata. Fra due mesi in Siria si dovrebbe votare. Alberto Stabile, sul suo blog di Repubblica, ha scritto: «come può pensare [Assad] di dar vita ad una libera competizione elettorale in un paese dilaniato tra una rivolta sempre più militarizzata e una repressione sempre più feroce? Qualcuno riesce ad immaginare anche per un solo momento lo svolgimento di un comizio a Baba Amro o a Karm az Zaitun, quartieri di Homs martirizzati dall’artiglieria, in quel panorama di macerie desolanti, maleodoranti e ammonitrici? O una riunione di partito a Idlib che non si trasformi subito in una manifestazione anti-regime? O un un sondaggio porta a porta a Deraa, dove si continua a sparare e la gente non esce di casa neanche il venerdì?».

Proviamoci. Mi chiamo Ghiyath, ho 26 anni e vivo a Homs, dove lavoravo come costruttore nell’azienda di famiglia. Siamo musulmani sunniti, anche se mio padre fuma tabacco e, talvolta, beve brandy d’importazione clandestina. La cucina di famiglia è, però, tradizionale: solo carne halal, niente impurità. La città era molto bella, prima che venisse distrutta dall’esercito: clima mite e, se il cielo è sereno, si riesce a vedere il Mediterraneo. Negli ultimi tempi ho combattutto nelle strade e nelle piazze. Non ho mai imbracciato un fucile, ma ammetto di aver aiutato i ribelli armati. Nei giorni in cui furono trucidate centinaia di persone, ho nascosto in casa alcuni guerriglieri inseguiti dalle truppe governative e ho portato soccorso ai feriti e agli sfollati.

Fra due mesi ci saranno le elezioni. Non avevo mai fatto politica prima d’ora. Alla fine del 2010 mi regalarono un pc. Cominciai a navigare. Dai paesi vicini arrivava l’eco delle proteste contro i regimi. Un giorno, un amico mi disse che un gruppo di ragazzi cercava di organizzare una manifestazione contro Bashar Al Assad e che avrei potuto contattarli tramite Twitter. Decisi di aderire. Non mi mosse una precisa convinzione politica, ma la voglia di partecipare. Scoprii che pensare di avere il potere di decidere per me stesso e, insieme agli altri, per il mio popolo mi riempiva di orgoglio e di soddisfazione. Così fui fra le migliaia di persone che accorsero in piazza gridando slogan contro il regime. Un giorno ci dissero che in Tunisia la rivolta aveva vinto e cominciammo a pensare di potercela fare. E poi ci raggiunse la notizia che in Libia c’era la guerra, che gli occidentali bombardavano le città per cacciare Gheddafi e che i ribelli avrebbero preso il potere di lì a poco. Nelle piazze, la polizia cominciò a picchiarci. Io stesso sono stato manganellato, mentre alcuni ragazzi che avevo incotrato nei cortei persero la vita. La lotta, però, doveva continuare. Non sapevamo bene cosa desiderare per il dopo. Sicuramente la democrazia e poi che Assad sparisse. Io avevo in mente di tornare a fare il costruttore. Magari, nel tempo libero, mi sarei impegnato in circoli culturali. Mi piace il cinema e, a volte, riesco ad eludere la censura e a guardare film americani. Ultimamente ho visto Pirati dei Caraibi.

Da quando le elezioni sono state indette, nella mia città c’è fermento. Cominciano a spuntare insegne di partiti in ogni angolo. Nella maggior parte delle ipotesi i cartelli elettorali sono bruciati o mitragliati da pattuglie dell’esercito. A Fakhura, un quartiere non lontano dal centro, c’è la sede del movimento democratico, dove lavora Matar, un vecchio amico di mio padre. Anche lui è fra gli oppositori di Assad e, mi raccontano, ogni mattina provvede ad incollare nuovi manifesti su quelli strappati il giorno prima.

Ho deciso di candidarmi. I responsabili di al-Badīl, che significa Alternativa, mi hanno chiesto di impegnarmi direttamente, perchè nel mio quartiere non c’erano molte persone disposte a candidarsi. La sfida mi provoca una strana emozione. Fantastico sul fatto di essere eletto in parlamento e di costruire una Siria migliore. Dopo tutto anche nel corso delle manifestazioni di un anno fa dicevamo di volere partecipazione e libertà. I responsabili del partito mi hanno già detto che sarà difficile, che subiremo attacchi, soprusi e violenze. E poi che ci saranno brogli e vincerà ancora Assad. Però vale la pena di impegnarsi, anche se la campagna elettorale sarà pericolosa.

E’ il giorno del mio primo comizio. Sono emozionato. In piazza non c’è molta gente. Circola la voce che chi sarà sorpreso a partecipare a una manifestazione organizzata dalle forze contrarie al regime sarà raggiunto a casa delle guardie nazionali. Nonostante questo, si è radunato un buon numero di persone sotto il mio camioncino che funge da palco. Inizio. Dico che il popolo siriano deve liberarsi e che può farlo solo attraverso il cambiamento. Mi tremano le gambe, ma immagino di trovarmi dalla parte giusta. Mentre sono al culmine della mia esposizione, da me interpretata cento volte di fronte allo specchio del mio bagno, si sente esplodere un colpo non molto lontano dalla piazza. Vengo interrotto. La gente si dilegua. I miei compagni mi invitano a scendere dal “palco” e a dirigermi con loro verso il luogo dello scoppio. Un’autobomba ha distrutto il comitato elettorale di un altro candidato democratico.

Arriva il giorno delle elezioni. La tensione è alta. I seggi sono presidiati e ciò mi deprime. So di poter ottenere un discreto numero di preferenze. A questo punto non mi importa di essere eletto. L’importante è che vinca la democrazia. Alla chiusura delle urne incontro i responsabili del mio partito nella sede centrale. Sono moderatamente felici. Le notizie che giungono dai seggi sono incoraggianti, anche se alcuni dei nostri rappresentanti sono stati picchiati e allontanati. Dopo lo spoglio scopro di essere stato il candidato più votato nella mia circoscrizione. Sono felice. Comincio a sperare.

Nella vengono diramati i dispacci del ministero dell’Interno. Per il regime sono l’unica cosa che conta. A vincere è stato il partito che sostiene Bashar Al Assad. Non è possibile. Nella mia circoscrizione le notizie di fonte governativa riscrivono il risultato elettorale. Io sono addirittura terzo. Primo è, naturalmente, il candidato del regime.

C’è rabbia per le strade. Cominciano a radunarsi gruppi di contestatori. Li raggiungo. Le elezioni sono state una farsa. La democrazia che sognavamo è svanita. Bisogna continuare a lottare. Soli.

E’ primavera. Maledetta!

Nota: Ghiyath è un personaggio immaginario, così come tutto il racconto….


14 commenti su “Siria: dalla primavera alla morte”

  1. Una situazione gravissima….sotto i nostri occhi….fra 50 anni ..faremo il giorno della memoria per ricordare le vittime della repressione sanguinaria, di Sua maestà Bashar AL Assad..e grideremo…Mai più Primavera Siriana….ma dico non si può fermare …per sempre… questo..”prepotente”!!!!!!cosa ne pensate?

  2. sarà perchè in siria non c’è petrolio? e intanto bambini continuano a morire sotto gli occhi dell’occidente ,s si è intervenuti in libia bisogna intervenire anche in siria

  3. la Nato non può intervenire in modo discrezionale e con il veto di Cina e Russia nn si può, in Libia tale veto nn ci fu, gli Stati Uniti vogliono intervenire proprio come in Libia,ferme restando le iniziale perplessità dovute alla vicinanza della Siria con l’Iran

  4. Noi abbiamo un brutto vizio, contare i morti che fanno gli altri. I morti che facciamo noi(noi inteso come civiltà occidentale) quando interveniamo in queste situazioni non siamo usi a contarli. In nome di non si sa quale supremazia intellettuale vogliamo mettere bocca su tutto quello che ci disturba. Io piango i bambini morti ma tutti i bambini morti, i bambini delle regioni povere del mondo che muoiono ogni giorno di stenti, i bambini uccisi ogni giorno nelle coddette guerre dimenticate(dimenticate perchè non interessanti economicamente). Piangere solo quelli che fa comodo agli interessi occidentali lo ritengo solo una prova di disonestà intellettuale.

  5. come sempre….dopo irak…libia …adesso la siria…chissa perche pero non dicono di che morti si trattano, se civili ribelli armati (da chi?) se civili pro assad, se mercenari (in civile)….troppo facile fare una guerra mediatica con le notizie al servizio dell’impero, vero non hanno petrolio….pero chissa sotto sotto cosa interessa veramente ai servi di obama e di israele? poi come fanno a contarli? chi li conta=?

I commenti sono chiusi.