#Bruxelles, al terrorismo rispondiamo col silenzio

Nel 1999 Eric Harris e Dylan Klebold uccisero 12 studenti, un insegnante e ferirono altre 21 persone. Successivamente i due ragazzi si suicidarono. Il fatto è noto come il massacro della Columbine High School e alimentò il dibattito su diversi temi, quali bullismo, uso delle armi, violenza nei videogame, uso di internet da parte degli adolescenti, musica metal e subcultura goth.

Quando ho appreso la notizia dell’attentato a Bruxelles ho pensato immediatamente a quella storia che tanto mi aveva colpita da adolescente.

Le analisi sociali e politiche sono spuntate a decine anche nel caso di Bruxelles. E certamente i moventi non sono perfettamente identici nei due casi. Ma mi chiedo se Eric e Dylan fossero poi così diversi dagli attentatori di Bruxelles, Parigi o a chi dall’Europa parte e si arruola con l’IS. In comune hanno certamente un facile accesso alle armi (e una moratoria sulle armi mi pare l’unica cosa sensata da fare nell’immediato) e un ossessione per gesti tanto violenti quanto plateali. L’ipotesi più accreditata nel caso di attentati è l’emarginazione sociale di alcuni individui o gruppi, che si tratti di una scuola superiore americana o di un quartiere di una metropoli europea, il meccanismo che innesca la follia omicida-suicida pare essere lo stesso.

A mio avviso, però, questa spiegazione non si può consideare esaustiva. I terroristi affiliati all’IS sono prevantemente uomini, non poveri, ma di classe media, talvolta medio-alta, non socialmente isolati, ma spesso con famiglia e amici e un’educazione a livello universitario. Ciò non significa che guerre, discriminazioni e flussi migratori non abbiano alcuna correlazione col terrorismo. Non ne sono necessariamente la cause, ma creano una narrativa che affascina individui profondamente delusi dalla normalità della propria vita.

Il terrorismo, in fondo, è sempre stato uguale a se stesso, una ribellione violenta a un sistema che non piace, un sistema in cui alcuni, per narcisismo e mania di protagonismo, arrivano a compiere gesti estremi. Io credo che i terroristi di Bruxelles, Eric e Dylan, e ancora i NAR negli anni ’70, abbiano in comune proprio questo senso di inadeguatezza, e non perché siano effettivamente ai margini della società, ma perché il loro status (di maschi, borghesi, bianchi, o chissà che altro) non è sufficiente a porli in una posizione dominante rispetto a quella parte di popolazione che loro considerano indegna. Anders Behring Breivik, il terrorista norvegese che uccise 77 persone nel 2011, si descrisse ad esempio come il futuro reggente della Norvegia e il più perfetto cavaliere d’Europa dai tempi della Seconda Guerra Mondiale.

La stampa italiana e internazionale commette in questi casi sempre il medesimo errore, condiscendere al sensazionalismo e produrre una quantità incalcolabile di articoli che pongono gli attentatori al centro dell’attenzione. Ma anziché cercare spiegazioni o addirittura sforzarsi di empatizzare col bombarolo di turno, all’indomani degli attentati di Bruxelles, secondo me è necessario focalizzarsi sui problemi reali della nostra epoca (cambiamenti climatici, produzione e commercio di armi, polarizzazione della distribuzione della ricchezza, ecc…) e condannare i terroristi dell’IS che operano in Europa e nel Medio Oriente a un inglorioso oblio mediatico, l’unica cosa di cui abbiano mai avuto davvero paura.

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