I #graffiti sono arte. Anzi no, fanno schifo.

David Lynch, apparso nella galleria australiana che sta esponendo in questi giorni una sua personale, ha criticato i tagli alla cultura dei governi di tutto il mondo e ha bocciato i graffiti, definendoli orribili e colpevoli di aver rovinato il mondo, almeno in senso estetico.

I graffiti sono arte o no? Posto che è davvero difficile non apprezzare i murales di Orgosolo e i lavori di Bansky a Gaza, rimane sempre il dubbio sui cosiddetti tag, ovvero le scritte sui muri. Certo, non si tratta di “arte” come la concepisce Lynch, quell’arte che si espone in gallerie esclusive mentre gli intenditori/compratori sorseggiano champagne, ma rimane una forma espressiva tutt’altro che moderna. Basti pensare ai tanti graffiti ritrovati al colosseo o a Pompei, non diversi per contenuti rispetto a quelli che spesso si condannano in quest’epoca.

Colin Ward parlò dello spazio urbano e abitabile moderno come di un qualcosa che specialmente la classe lavoratrice non può personalizzare e che perciò diventa alienante, quanto se non più del lavoro in fabbrica descritto da Marx. I piani urbanistici calati dall’alto riempiono le nostre città di architetture brutte e spesso stupide, ma raramente ricevono le severe condanne riservate ai graffiti. Basti pensare agli edifici dei quartieri popolari o a molte opere pubbliche, quelle in particolare che si sono ben guardate dall’essere, se non belle, almeno efficienti, raccogliendo comunque il plauso delle classi dominanti (e svuotato le tasche dei lavoratori). L’odio per i graffiti fa parte dell’ossessione per la proprietà privata, per cui anche quella statale si può considerare proprietà collettiva se e solo se è impedito al popolo di farne uso: la città ideale è asettica e solo chi ha il potere può decidere cosa abbattere, cosa costruire e, infine, cosa sia arte e cosa sia invece un insulto all’estetica.

A Genova, appena un anno fa, era apparso in via Francia il ritratto di Mattia Medici, giovane ragazzo morto in un incidente stradale. Gli amici writer furono obbligati dai vigli urbani a coprire il murales, salvo poi ricevere l’autorizzazione per il memoriale da parte della procura che archiviò la denuncia. Questo tipo di storie pone la questione di cosa sia lo spazio comune e a chi appartenga: lo spazio urbano è organizzato dall’alto per essere economicamente produttivo, i graffiti, anche quelli “brutti” ci ricordano che esso è prima di tutto abitato e vissuto. Con buona pace di mister Lynch e delle sue esigenze di inquadratura.