“La cultura della destra” di Veneziani: un tentativo fallito

Comprai qualche tempo fa, quasi per caso, “La cultura della destra” (Ed. Laterza, 2007, Roma-Bari), di Marcello Veneziani, un intellettuale di destra che un tempo faceva capo all’area berlusconiana.

La speranza era, da figlio di un ex segretario comunale del MSI, poi AN, di capire davvero cosa volesse dire essere modernamente di destra e creare uno spazio nuovo di destra che non sia nostalgico delle atrocità commesse nel ventennio fascista. Una destra che quindi sia altra cosa da Mussolini, da Rocco, dai ras del fascismo tutto, dal sansepolcrismo all’esperienza repubblichina.

Il libro, come dice Veneziani stesso nel suo incipit, poggia ancora sull’inganno che «destra e sinistra abbiano ancora un senso». Veneziani dà quindi esplicita conferma che dire che non esistono più la destra e la sinistra sia un pensiero di destra. Esse sono più che altro delle salutari menzogne che rientrano nel contesto delle “mentalità politiche, sociali e culturali”. Questa prima affermazione non mi ha però scoraggiato dal proseguire la lettura che anzi è scorsa molto rapida. Il libro si articola poi in quattro capitoli: Patria, che significa oggi; Immigrazione, risposte da destra; Globalizzazione, amici o nemici?; Religione e cittadinanza. Seppur in ordine un po’ sparso le tre persone della Trinità fascista “Dio, Patria, Famiglia

Veneziani traccia, con ambigua risolutezza, un necrologio dei due “tutori maligni” della sinistra – il comunismo – ma soprattutto della destra – il fascismo – ma di quest’ultimo se ne percepisce, per tutta la durata dello scritto, una candida malinconia: come si vedrà in un articolo del 2012 apparso su ‘Il Giornale’, l’autore de “La cultura della destra” guarda molto al corpus dei valori fascisti, quasi rimpiangedoli. Al tramonto del fascismo Veneziani fa coincidere l’avvento del dominio culturale della sinistra, che segna una ridicolizzazione del sentire di destra in nome della «filantropia e del velleitarismo» tipiche della Sinistra. Pur riconoscendo che nella destra (sia pura che economica) in cui vige il “credere, obbedire e combattere” è più difficile “pensare, obiettare e dibattere”, l’autore fa forzatamente riferimento al fatto che la cultura sia tramandata per tradizione. È quindi possibile che anche a destra si sviluppi cultura. La cultura della destra, come ricordato in precedenza, guarda molto a Dio: se, infatti, l’orizzonte utopico della Sinistra è nella speranza della realizzazione di un paradiso in Terra, per la Destra è importante anche e talvolta soprattutto la dimensione metafisica, trascendente e divina. È quindi importante per la Destra mantenere inalterati i punti fermi della tradizione religiosa di una nazione, ponendo in discussione persino la laicità come valore: si è vissuti, secondo l’autore, troppo all’ombra dei Lumi laicisti che hanno sbeffeggiato l’Ancient Regime e le sue tradizioni aristocratiche e religiose. Chi oggi quindi chiede la laicità, dalla rimozione del crocifisso nei luoghi pubblici a istanze sui diritti civili, riceve dalla Destra un secco no. «In definitiva la cultura della destra si pone come il tentativo realistico di annodare religione e cittadinanza» afferma Veneziani.

Cittadinanza che è legata ovviamente da un ethos ben preciso: l’appartenenza o meno al recinto della Patria-nazione preclude dall’esterno qualsivoglia possibilità di integrazione se non tramite il forzoso adattamento ai costumi del popolo dominante: «Massimo rispetto per chi ritiene di non poter rinunciare all’osservanza della forma e della sostanza delle proprie tradizioni, anche quando contrastano con i principi fondamentali della nostra società, ma a questo punto torni nei suoi luoghi d’origine» (pag.52). Citando lo Zibaldone di Leopardi, Veneziani arriva persino a dire che non odiando più lo straniero si arriva ad odiare il vicino, come se il rifiuto di comportamenti manifestamente anti-umani come il respingimento in mare di migranti e profughi comportasse l’odio per il nostro vicino di casa o per il nostro connazionale. L’autore si abbandona poi a una retorica non dimostrata su come, grazie all’informazione, un omicidio commesso contro uno straniero appare più efferato di quello verso un italiano (viceversa potremmo far notare a Veneziani che le costanti puntualizzazioni giornalistiche sulla nazionalità dei protagonisti di un atto doloso non fanno che esacerbare un clima sociale già tesissimo).

La dimensione divina e nazionale trova il suo compimento nell’opposizione alla globalizzazione, che Veneziani vede come un proseguo in chiave più capitalista dell’internazionalismo social-comunista. Alle critiche dei movimenti alter-global Veneziani imputa di essere soltanto contrari a una globalizzazione di stampo americano. In un crescendo storico, il cosmopolitismo illuministico e massonico settecentesco, il filantropismo sociale ottocentesco e l’internazionalismo socialista novecentesco la destra non può rispondere che in due modi, ossia conferendo maggiore sovranità agli Stati nazionali e scoraggiando una globalizzazione della cultura: tendendo, dunque, a un patriottismo compatibile con la inevitabile nascita di realtà sovrannazionali.

Ammetto, con estremo dispiacere, che mi è stato difficile seguire logicamente e sintatticamente il pensiero di Veneziani, fatto molto spesso di luoghi comuni presenti in una certa destra ancora pregna di revanscismo fascista e di considerazioni non comprovate da documentazioni e studi. Le note bibliografiche sono molto scarne e non consentono un adeguato collegamento fra altri testi che mi avrebbero permesso di confutare meglio quanto scritto.

Il tentativo di capire la destra attraverso Veneziani, che spesso si è lasciato a invettive filoberlusconiane degne di un cantore di corte, è miseramente fallito, sia per insufficienza dello scritto sia perché mi è parso che ancora una volta ci sia una destra che non riesce ancora a puntare il dito contro il fascismo e a perdonare Gianfranco Fini per aver distrutto quel movimento neofascista che era il MSI.