Di #legalità e #prostituzione

Se vuoi che una femminista, una sindacalista e una capitalista si siedano allo stesso tavolo e diventino amiche, digli di parlare di prostituzione. La prima dirà che è bellissimo che finalmente una donna disponga liberamente del proprio corpo, la seconda aggiungerà che le prostitute (anzi, le “sex workers”) sono donne oppresse che si battono per i propri diritti, la terza esprimerà tutta la sua ammirazione per queste signore in grado di essere imprenditrici di se stesse.

In “Prostituzione. Globalizzazione incarnataRichard Poulin scrive che il tasso di mortalità tra le donne e ragazze reclutate nel mercato della prostituzione è 40 volte volte superiore alla media nazionale canadese (il Canada adotta una politica abolizionista, cioè non è vietata la compravendita di sesso, ma sono punibili il favoreggiamento, lo sfruttamento, la prostituzione minorile, ecc…). Con la legalizzazione, si dice, la sicurezza sul lavoro delle prostitute sarebbe garantita. Nei Paesi Bassi, però, il 60% delle prostitute dichiara di aver subito violenza fisica, mentre il 40% sostiene di essere stata vittima di stupro almeno una volta. La normativa tedesca, inoltre, non ha impedito che il mercato della prostituzione rimanesse monopolio della criminalità organizzata. I numeri parlano da soli: ciò che la legalizzazione ha fatto per la sicurezza delle prostitute è poco o nulla. Attenzione, non significa che il mercato debba restare nella clandestinità, significa però che una eventuale riapertura delle case chiuse o la creazione di quartieri a luci rosse è una vittoria di Pirro.

Definire il confine tra volontarietà e schiavitù può non essere così semplice. In Germania il 63% delle prostitute è di origine straniera, a fronte di un 12% di immigrati sulla popolazione totale. Interessante notare che molte delle donne provengono dall’est Europa e sono ben consce che non andranno in Germania a fare le panettiere o i medici. Questo è il destino di un po’ tutti gli immigrati: si fa quel che si può per campare, ma è davvero libertà questa?

La chiave di tutto sta nella parola “mercato“. Quello che spesso le femministe e le donne di sinistra dimenticano, è il rapporto strettissimo tra prostituzione e capitalismo. Michel Bosquet in “Critica al capitalismo di ogni giorno“, fa notare come anche la pratica del sesso, insieme a tutto ciò che è diventato merce, viene tolta dalla gestione autonoma fra esseri umani per essere venduta dall’industria e data in affitto dalle istituzioni. Julia O’Connell Davidson in “La prostituzione. Sesso, soldi e potere” sulle donne che non dipendono direttamente da un “capo” (si può dire pappone legalizzato?) scrive:

Il contratto [tra cliente e prostituta] prende una forma simile a un contratto di affitto – per una somma di denaro x il cliente può avere dominio sulla prostituta per un periodo di tempo x – e potrebbe essere difficile per la prostituta imporre limiti sulla natura o l’ambito dei poteri che il cliente esercita su di lei all’interno di quel tempo stabilito.

Ecco un’altra parola chiave: “potere“. L’immaginario femminista-riformista vede nella prostituzione un rapporto di potere che è l’inverso di quello reale, un po’ come se una volta firmato il contratto l’operaio esercitasse un dominio sul padrone e non viceversa. Chiaramente questo, pur all’interno dell’enorme mole di contratti unici, leggi e battaglie sindacali, non è mai avvenuto.

La prostituzione è figlia del capitalismo, soggetta alle leggi del mercato e (lo dicono i dati) è un mestiere assai più pericoloso di altri. Se la legalizzazione può essere un salvagente temporaneo, la sua natura rimane invariata. Spiace vedere come il dibattito sulla prostituzione e sulla condizione femminile in generale si sia fossilizzato sulle accuse di bigottismo/moralismo/sessuofobia, perché di capitalismo e libertà ci sarebbe ancora tanto bisogno di parlare.