A proposito di #Rivoluzione

Una bellissima canzone di Tracy Chapman si intitola Talkin’ ‘Bout a Revolution. Ascoltandola in questo periodo dell’anno, non si può non pensare ai giorni in cui, ormai novantasette anni fa, si completava la Rivoluzione russa. Un evento che segnò le speranze del movimento socialista internazionale e agitò i sonni già inquieti delle classi dirigenti liberali che conducevano una guerra le cui proporzioni erano da tempo sfuggite di mano a tutti quanti. Una speranza che sfiorì nel giro di qualche anno: non passò molto tempo prima che l’Unione Sovietica diventasse una dittatura totalitaria, sotto Stalin.

Fin qui nulla che non sapessimo già. Ma l’esperienza del socialismo reale è stata un chiaro esempio di come il marxismo ortodosso non sia privo di alcune ingenuità. Per carità, a livello teorico non fa una piega. La dittatura del proletariato come strumento per smantellare lo stato borghese e preparare la futura società comunista, semplice e lineare. Non è un caso se si chiama “socialismo scientifico”. Ma l’aspetto sottovalutato è che un potere illimitato, senza alcun contrappeso, tende a servire solo sé stesso. È la natura dell’uomo, dei cui difetti dobbiamo tenere necessariamente conto: se questi non esistessero, nessun modello politico sarebbe preferibile ad un altro. Si potrebbe vivere in uno stato di convivenza anarchica e piena solidarietà.

Ma, fantasticherie a parte, è giusto ammettere che la storia ha dato ragione a quanti temevano, come Bakunin già un secolo e mezzo fa, che la burocrazia di partito avrebbe formato una casta di privilegiati. Se Berlinguer affermò che la Rivoluzione d’ottobre aveva esaurito la sua “spinta propulsiva” a seguito del golpe polacco del 1981, oggi non possiamo che continuare ad affermare la democrazia come unico modello di sviluppo di una società egualitaria.

Naturalmente anche la pianificazione, fulcro dei sistemi economici orientali, è assolutamente improponibile. Non solo in Italia (in cui il modello sovietico non sarebbe stato applicabile nemmeno durante il Biennio rosso), ma in generale nell’evoluzione del pensiero socialista. Ciò vuol dire che è tutto finito? Sì, se vogliamo leggere Marx come un testo di fede. No, se ci proponiamo di adattare il suo pensiero ad una società profondamente cambiata. Il nocciolo centrale di sfruttamento rimane (il capitalismo potrà anche cambiare pelle, ma non la sua anima), quindi dobbiamo cercare un’alternativa fondata su un’economia della felicità. Un’alternativa che permetta la coesistenza della libera iniziativa con l’organizzazione cooperativa del lavoro.

Due presupposti fondamentali per tutelare l’autonomia di ciascuno e il pieno sviluppo della sua personalità, nell’ottica di un lavoro creativo e non più meccanico. Pensate ad un operaio che non solo lavori in fabbrica, ma possa collaborare con ingegneri ed esperti di mercato nell’elaborazione di un nuovo prodotto, mettendo in gioco la preziosa esperienza che ha acquisito grazie al lavoro manuale. Una società come la nostra, che pone alla base l’uguaglianza e la democrazia politica, non può permettersi di restare ancorata al rapporto di pura subordinazione tra imprenditore e dipendente.

D’altra parte lo Stato deve recuperare un ruolo attivo nell’economia, per sostenere e sorvegliare il mercato. Un sistema fiscale fortemente progressivo e un welfare efficiente possono fare miracoli. E la rivoluzione? La violenza non serve a nulla, a meno che non si tratti di un mezzo estremo per combattere una dittatura (la Resistenza insegna: senza quelle lotte, senza quel sangue, oggi non possiederemmo la sua meravigliosa eredità). Il rispetto delle istituzioni democratiche e della Costituzione, un graduale riformismo da realizzarsi anche con il contributo (che non vuol dire inciucio) delle altre forze politiche, la fiducia dei lavoratori e dei giovani per formare un grande schieramento civico, l’onestà e la trasparenza come i valori più importanti su cui fondare la politica: se partiamo da questi cardini, possiamo rifare la Sinistra. Questa sì che sarebbe una rivoluzione.