Il delirio yuppie di Scorsese: “The Wolf of Wall Street”

Wall Street e gli anni ’80: li avevano raccontati già Oliver Stone nel 1987, con tanto di premio Oscar a Michael Douglas, e la canadese Mary Harron con American Psycho, tratto dal romanzo di Bret Easton Ellis. Ci riprova quest’anno Martin Scorsese che affida a Di Caprio il ruolo di Jordan Belfort, ripercorrendone in ben tre ore una vita di eccessi talmente fuori da ogni immaginazione che viene da chiedersi A) se sia tutto vero e, nel caso, B) se quest’uomo sia ancora vivo (sì, lo è, scrive libri, fa il “motivatore” e pare debba ancora parecchi soldi allo Stato). Il film si rifà completamente all’autobiografia del broker e non lesina scene di nudo, sesso e abuso di droghe di ogni tipo: fa tutto parte della vorticosa esistenza di un ragazzo senz’anima …e senza la minima intenzione di costruirsene una.

Colpa della fatale corruzione operata dal denaro? La finanza, se non addirittura il capitalismo, sono così e basta? Scorsese non risponde e certo non ci aspettiamo da un americano una condanna senza riserve del capitalismo (come non arrivò a esprimerla Oliver Stone che si fermò a biasimarne il lato oscuro), ma “The Wolf of Wall Street”, pur collocandosi a pieno diritto nell’intrattenimento puro, non può non far pensare alle origini della crisi economica dei nostri giorni. Specialmente quando a inizio pellicola Matthew McConaughey / Mark Hanna, in una scena ai limiti del demenziale, spiega a un Leonardo Di Caprio / Jordan Belfort ambizioso ma ancora ingenuo, come funziona la finanza: soldi che si vedono ma che non esistono, poveri diavoli i cui risparmi finiscono dritti nelle tasche degli operatori di borsa in cambio del brivido di una corsa sulle montagne russe dell’alta finanza…

Non c’è un’analisi approfondita dei torbidi meccanismi di Wall Street, né si intravede nei personaggi quella volontà di redenzione a cui ci aveva abituati Scorsese: nella vita di Belfort è però racchiuso tutto il mito del sogno americano, ma somiglia più a quello spericolato e indecente di Bukowski (specialmente in Hollywood! Hollywood!) che alle storie edificanti tanto care all’immaginario d’oltreoceano (vedi La ricerca della felicità di Muccino). Scorsese, insomma, ci restituisce l’immagine bestiale dell’America e, complici le prove di Jonah Hill e Di Caprio, ce la fa piacere dal primo all’ultimo minuto.

L’ho guardato due volte in rapida successione, e anche se sfiora il cliché, l’operazione di puro cattivo gusto è spettacolare.
(Peter Bradshaw, The Guardian)