Galileo, i calabroni e il buon senso

A molti sarà capitato di sentire che secondo la scienza il calabrone non può volare, ma a lui della scienza non importa nulla e vola lo stesso.

Leggenda vuole che nel 1930 un aerodinamicista (qualcuno dice Prandtl, qualcun altro Ackeret) si trovasse a cena con un biologo e fosse stato chiamato a spiegare come volano gli insetti. Se si considerano, per semplificare il calcolo, le ali del calabrone perfettamente rigide e lisce e si confronta il peso del corpo del calabrone con l’area delle ali, quello che risulta è che la spinta non è sufficiente perché il calabrone possa volare. Sfido chiunque ad addentrarsi ulteriormente nel problema ad una cena in cui probabilmente c’è di meglio da fare. Questo aneddoto sulla complessità dei modelli matematici è però penetrato nella nostra cultura, fino a diventare una leggenda metropolitana, anzi, una vera e propria pietra tombale sulla superiorità della natura (o di Dio) rispetto alla scienza. Molti fisici nel corso degli anni hanno cercato di trovare un modello matematico il più vicino possibile alla realtà; in sintesi, senza scomodare troppe nozioni tecniche, il calabrone sbatte le ali 230 volte al secondo (più del doppio del più piccolo dei colibrì) e nello sbatterle le ruota in una direzione e poi in quella opposta il che gli permette di volare un po’ dove gli pare, incurante, più che della scienza, delle leggende a suo carico.

L’osservazione ci permette quindi di vedere volare i calabroni (parafrasando Ken Zeite: è un nonsense pensare che la scienza dica il contrario), inoltre tutti i calabroni volano (è un fenomeno riproducibile) e i modelli matematici ci spiegano come.

Ma come facciamo a sapere che quello che dicono i ricercatori è vero? Il mondo scientifico per rispondere a questa domanda si è dato delle regole. La prima viene direttamente da Galileo: un’ipotesi dev’essere confermata dai dati sperimentali e dev’essere possibile per chiunque, nelle medesime condizioni, riprodurre gli stessi risultati.

Questo non è però sempre possibile nella pratica, perciò quando un ricercatore fa qualcosa di nuovo sottopone il proprio lavoro in forma scritta ad altri ricercatori competenti ma indipendenti da lui, che ne confermano o meno la scientificità e insieme all’editore ne decidono la pubblicazione su una rivista specializzata: si chiama peer review. Può risultare un metodo imperfetto, ma le pubblicazioni poco scientifiche vengono, prima o poi, sbugiardate dalla pratica: lo scienziato A legge il lavoro dello scienziato B e pensa che gli possa essere utile, utilizza il metodo descritto, ma arriva a conclusioni differenti. A può semplicemente ricorrere a un altro metodo oppure dimostrare che l’ipotesi di B non è valida, con dati sperimentali che la confutino. Se invece il lavoro di B è utile e riproducibile il suo articolo verrà citato da A. Se l’articolo di B è molto utile verrà citato anche da altri ricercatori: su questo si basa l’indice di Hirsch (H-index), con il quale si indica non solo il numero di articoli prodotti da un ricercatore, ma anche l’impatto degli stessi nella comunità scientifica.

Certo è un modo efficiente di fare scienza, ma non tutti hanno le competenze o il tempo per accedervi e fare i propri controlli. Quindi come possiamo, noi persone comuni, difenderci dai truffatori, dagli oroscopi e dalle superstizioni? Non serve nessun atto di fede, quello lasciamolo alle religioni, serve invece un po’ di pazienza e buon senso. La pazienza è quella richiesta per non fermarsi solo all’informazione,  dedicandosi anche all’approfondimento e all’ascolto.

Nel 2010, con un computer e un software adatto, Shigero Kondu calcolò per il π (pi greco) 5 miliardi di cifre decimali, ad un ingegnere che vuole calcolare la circonferenza di una tubatura ne bastano meno di una decina, a noi per non farci gabbare basta sapere (ma lo possiamo anche verificare) che una circonferenza è lunga poco più di 3 volte il suo diametro. Ecco quest’ultimo è quello che si chiama buon senso: ricordate i fontamaresi di Silone? Il podestà si prese i 3/4 dell’acqua e lasciò loro i 3/4 dell’acqua rimanente

così gli uni e gli altri avranno i tre quarti, cioè un po’ più della metà

E noi, riusciremo a non fare la stessa fine credendo ancora al mito del calabrone?