Studiare per non lavorare

 

In Italia, direi da sempre, i laureati non hanno lavoro. Eppure tutti dicono sempre che abbiamo pochi laureati, che bisogna ridurre il numero di studenti che abbandonano gli studi, che bisogna mettersi in linea con i famosi “altri Paesi sviluppati”. Come a dire che, se c’è una diversità, se l’Italia è un caso anomalo, è per forza una cosa negativa, e si deve correre ai ripari.

I laureati in Italia sono meno di un quinto della popolazione (dati Almalaurea). L’Europa, dal canto suo, chiede di aumentare il numero di laureati e pone l’obiettivo del 40%. Nel frattempo, chi si laurea non se la passa bene, con un bel 16% di disoccupati tra quelli in possesso di laurea triennale e 18% tra quelli con titolo specialistico (sempre Almalaurea). Ma come? Più si studia e meno si trova lavoro? Allora perché insistono a volerci laureati?

La strategia politica pare essere quella di formare persone in grado di sostenere la produzione di prodotti e servizi sempre più complessi, lasciando spazio alla Cina e agli “altri Pesi in via di sviluppo” il compito di produrre beni a bassa intensità tecnologica. Mi chiedo se la Cina sia d’accordo, e come se la passano laggiù i laureati. Qui da noi, la teoria dice che più laureati ci sono, più il progresso avanza. O viceversa? Questo forse gli economisti non se lo chiedono, ma non ci vuole una laurea per capire che, dati alla mano, in Italia sembrerebbe che la relazione causale non funzioni in nessuno dei due sensi. E allora che si fa? Si cambia la teoria? No, questo gli economisti lo fanno raramente, preferiscono cambiare la realtà per adattarla alle loro teorie. Proviamoci noi, diretti interessati, a fare un po’ di luce.

L’anomalia tutta italiana sta nel fatto che siamo l’unico Paese con un’economia cosiddetta sviluppata, in termini di PIL, ad avere una percentuale di laureati così bassa, pari a quella di un Paese in via di sviluppo. Come avremo fatto ad arrivare fin qui, senza laureati, pare non se lo sia chiesto nessuno. Ma tutti, economisti in testa, sono sicuri che servano laureati, lavoratori qualificati, competenze, per sostenere lo sviluppo economico del Paese. Qui, la puzza di bruciato si fa più intensa. Chi ha detto che i lavoratori qualificati sono i laureati? Chi ha detto che l’università ci equipaggerà con le competenze necessarie?

Personalmente, ritengo che la forza dell’Italia sia da sempre l’artigianato, e che la stiamo perdendo, se non l’abbiamo già persa. Il miracolo italiano del dopoguerra era costellato di microimprese che si fondavano su competenze artigiane, su pratiche, su abilità che non si acquisiscono leggendo un testo. L’innovazione arrivava dall’esperienza pratica, dallo scambio di idee e di conoscenza nei distretti e lungo le filiere, dalla collaborazione.

La politica, economica e non solo, dovrebbe basarsi sulla storia di un Paese, sulle sue peculiarità, dovrebbe valorizzarne i punti di forza. Altrimenti, tanto varrebbe farsi governare da extraterresti o computer, che magari sono pure meno corruttibili e più onesti.

Siamo perduti? Non ancora. Per fortuna c’è ancora qualcuno che è custode di quelle competenze e abilità non scritte, e siamo ancora in tempo per riprendere la rotta. Per sostenere la nostra economia, per creare posti di lavoro sicuri, bisogna rilanciare l’artigianato, supportare e promuovere le scuole artigiane. Chi non ama studiare di solito va a fare il muratore, ma direi che di cemento ne abbiamo abbastanza. È il momento di rilanciare l’apprendistato e la formazione pratica, di preparare artigiani.

Un artigiano è molto di più che un semplice lavoratore manuale, servono creatività e spirito d’impresa, e gli Italiani ne avrebbero da vendere, letteralmente. Mettiamo a frutto le nostre competenze, invece di rincorrere un modello che non ci calzerà mai bene. Gli artigiani erano la nostra forza, sono stati scalzati via dai prezzi bassi e dalla rapidità produttiva dell’era dei centri commerciali. Chi parla di sviluppo sostenibile reclama lentezza, chiede un’economia più umana. Chi lo sviluppo sostenibile lo fa, sa che retribuire in modo equo i lavoratori non porta al fallimento, e sa bene soprattutto che ci sarà sempre più bisogno di riparare, riutilizzare, e di ridurre il consumo anche attraverso l’acquisto di beni di qualità. I laureati, non so, ma gli artigiani ce li vedo bene, in questo quadro.

(foto da: VeganBlog.it)

8 commenti su “Studiare per non lavorare”

  1. Da un governo che ha sfruttato la tragedia dell’Aquila solo per mettersi in mostra che ci si può aspettare. Da chi per affari personali ha baciato la mano a Gheddafi che ci si può aspettare. Mi fermo ma la lista potrebbe continuare ancora per molto.

  2. Se studi non trovi lavoro, se trovi un lavoro ti fanno un contratto a tempo determinato, le pensioni dei genitori non sono in grado di aiutare più di tanto anche i figli, allora cosa pensiamo di fare: tutti ladri o delinquenti? il governo dovrebbe vergognarsi altro che diminuire le macchine blu e dare il rimborso spese….magari anche gonfiate andatevene tutti a casa

  3. Dovremmo prenderci per mano, noi che ci riteniamo onesti e desiderosi di democrazie e giustizia, ed insieme, tutti insieme prendere a pedate quei furfanti che mangiano, bevono e ridono alle nostre spalle, per non dire altro……L’egoismo mio e di tutti pero’ non ci permette di farlo e restiamo a parlare tutto il tempo e lamenatarci a favore delle tasche dei padroni!! Non e’ pessimismo il mio e’ solo la constatazione di vivere in un paese di tanti menefreghisti e troppi politici.

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